[presentazione di Milan Kundera, Marsilio, Venezia 2007]
Più che una raccolta di saggi, L’albero di Rizzante è un carnet di esperienze di lettura: come sottolinea Kundera nella presentazione, qui la saggistica letteraria è «una meditazione personale» (p. 8). A rigore, per Kundera interrogarsi sul senso complessivo di una raccolta di saggi è già un errore: «La forma di un saggio letterario sulla letteratura», scrive, «è ispirata soltanto dall’opera concreta che è l’oggetto della sua riflessione. E poiché ogni opera letteraria degna di questo nome possiede una sua problematica unica e inimitabile, la forma del saggio non può che essere, anch’essa, unica e inimitabile» (p. 8).
L’impressione di una mancata unità dell’insieme si conferma, se si scorre l’elenco dei narratori con cui Rizzante si confronta: Italo Svevo, Hermann Broch, Ernesto Sabato, José Saramago, Vladimir Nabokov, Kenzabur? ?e, e, Dezsö Kosztolányi, Danilo Kiš, Witold Gombrowicz, Boccaccio, Saul Bellow, Italo Calvino, Milan Kundera. È lo stesso Kundera tuttavia a offrire un criterio per descrivere la morfologia dell’Albero: egli postula infatti che vi debba essere un’omologia formale fra la saggistica e il suo oggetto; la descrizione della forma- romanzo dovrebbe quindi valere anche per il saggio come forma.
Schematizzando un po’, è possibile individuare tre tratti che, secondo Rizzante, definiscono il romanzo. Il primo è la frammentarietà: per «cercare di restituire l’immagine integrale di un mondo andato in frantumi» occorre un romanzo che sia «andato in frantumi» (p. 96). Per non tradire il proprio oggetto, anche il saggio sarà fatto di frammenti. L’aspirazione del romanzo alla totalità si incarna in un «principio analogico», capace di istituire «alcune leggi di coincidenza tra gli elementi dispersi del mondo» (p. 128). La costruzione della raccolta e dei singoli saggi si basa su questo principio.
Il titolo, L’albero, suggerisce una prima rete di analogie: un albero compare in Broch, come oggetto unitario dei diversi modi di vedere (p. 19) e significa il principio analogico in quanto tale; in Oee l’albero simboleggia la continuità della vita che ricomincia a ogni reincarnazione (p. 74); il romanzo come genere letterario è poi un albero (p. 113), cioè un’unità vivente e dinamica. La stessa scrittura procede spesso per analogie e associazioni. Nel saggio su Saramago, dopo due frasi virgolettate si legge: «queste due frasi […] non sono […] un’invenzione di José Saramago.
Mi sono venute in mente subito dopo la prima lettura del suo libro» (p. 40). Colpiscono la scarsità dei rimandi al discorso critico e l’abbondanza di riferimenti all’esperienza personale. Nessun rinvio, ad esempio, segnala che il «dettaglio-dettaglio» (p. 21) è un’interpretazione dell’ «effetto di reale». In punti decisivi, quanto l’autore afferma è autenticato dall’evocazione del legame fra discorso e esperienza vissuta, secondo uno stilema tipico dell’autobiografia. Questi due aspetti stilistici dipendono dal terzo tratto della forma saggistica: la possibilità di testimoniare dell’esistenza.
Nel saggio su Calvino e Kundera, Rizzante scrive: «Quando giunsi a Parigi la mia vocazione letteraria vacillava come una navicella in un mare in tempesta. Ondate di teoria avevano invaso la mia stiva e l’orizzonte era diventato un punto invisibile […]. Fu in quel momento che la prosa di Calvino e l’arte del romanzo di Milan Kundera […] mi imposero un’interpretazione dell’opera letteraria affrancata da pregiudizi teorici o ideologici. Fu un’esperienza liberatrice » (p. 156).
Il riferimento esistenziale è il gesto stilistico che corrode il discorso teorico e apre il saggio alla testimonianza. La stessa apertura caratterizza il romanzo, dove agisce la «logica dell’esistenza sotto forma di interrogazione su se stessa» (p. 21). Ma chiamare «logica dell’esistenza» un modo di raccontare che soddisfa, non è ancora avere una teoria? Infine, una saggistica che imiti il romanzo, non rischia di nascondersi nel suo oggetto, invece di portarne alla luce la forma narrativa?
Lascia un commento